venerdì 27 aprile 2012

ombre e luci

Un posto dove la pioggia annega la terra, i tuoni la assordano e i fulmini la spaccano. Un posto dove basta che non piova per una settimana e la polvere si infila dappertutto, negli occhi dei tassisti di moto, nei folti capelli di giovani muzungu; un posto dove la terra lascia l’erba al lato della strada di un inaspettato marroncino/rossastro.
Un posto dove è difficile mantenere la numerosa famiglia e sono soprattutto le donne che svolgono i lavori più duri, che trasportano pesi sulla testa e sulla schiena, che coltivano e cucinano...le donne o i bambini, ovviamente.
Un posto dove la terra è fertile da non credere, ma l’unica frutta che si trova sempre senza problemi sono arance verdi (aspre, ottime col sale) e banane. Un posto dove si fatica molto, ma non manca mai il tempo per cantare, suonare e ballare.
Un posto dove la figura del bianco è indissolubilmente legata alla ricchezza.
 Muzungu, unipe makuta. “Bianco, dammi i soldi.”
Un posto dove un bianco che parla, o almeno prova a parlare, swahili è accolto da grandi risate forse di stupore, di contentezza, di soddisfazione, di gratitudine.
Un posto dove il tuo nome diventa un’opinione, se sei bianco, e non ti chiami più chiara né magda, bensì Mariiiiie, Moniiiic -rieccheggiano le “i” delle voci acute dei bambini, muzungu, se non chinois (sì, esatto, proprio cinese!, essendo i cinesi la comunità non nera più numerosa sul territorio).
Un posto dove non si chiede per favore, ma non si risparmiano i ringraziamenti, AKSANTI!
Un posto dove un saluto vale molto di più, dove a jambo! si può rispondere jambo sana!, o tradotto in francese “bonjour beaucoup”, come a ricambiare con un saluto ancor più convinto e deciso.
Un posto dove il cervello (bongoo) ha solo una O in più delle bugie...e nella lingua della capitale se aggiungi una “m” davanti alle bugie, si trasformano in soldi. Un posto dove debole è facile, teketeke (che però forse è anche “liquido, molle”), e forte è difficile, ngufu.
Un posto dove per strada chiunque ti chiede se vai o se torni, se sei stanca, se ti riposi, soprattutto se siete due delle poche bianche (uniche?) che girano a piedi in città.
Un posto dove guerra è vita.
Una regione (Nord-kivu) dove ancora oggi eserciti irregolari come Mai-Mai e FDLR, ancora arruolano ragazzini e ragazzine a combattere o a diventare schiave sessuali, in una guerra infinita.
Una regione in cui sono presenti, come gocce nel mare, centri per ex bambini soldato, per reiserirli nelle famiglie dopo periodi di minimo tre mesi.
Un centro di questi dove un ragazzo si fa chiamare generale e non gioca con gli altri; ma se una ragazza lo cerca e lo prende per mano, entra nel cerchio, prende e passa la palla. Un centro dove una ragazza e 18 ragazzi sono contenti per l’arrivo di tre italiani per qualche giorno, scrivono una lettera di ringraziamento, preparano una rappresentazione per raccontare la loro storia.
Un posto dove i ragazzi ti conquistano e non sai perché, non parlate la stessa lingua, ma solo i loro occhi che tornano a brillare danno un senso al tuo essere lì.
Un posto dove la stella polare è sotto l’orizzonte e la croix du sud è sempre là, un aquilone sopra il banano.
Un posto dove le stelle sono perennemente indecise fra il brillare al massimo e il nascondersi, così continuano a fare capolino, dal loro mondo al questo.
Un posto che è in mille posti insieme, che è lago, vulcano, poi foresta, savana. Ancora tutto da scoprire ma già famigliare. Un posto pieno, un posto vivo, con le sue ombre e le sue luci.

Un week-end da paura


Partenza col bus alle 10 di sera per passare la giornata a Odessa e ritorno alle 4 del mattino del giorno dopo e iniziare così la settimana di lavoro. Questi erano i programmi perché a quanto pare il primo aprile* a Odessa è un evento molto importante. Si chiama Umorina, assomiglia a un carnevale, ma per sapere di preciso cos’è bisognerebbe andarci. E alla fine era troppo stancante e non c’era nessuno che sarebbe venuto con noi.

Il nostro week-end da paura 20 ore di pullmann e 20 di carnevale si è così trasformato. Con questa domenica ho fatto l’en plein delle messe: dopo la messa in rumeno, in inglese, in tedesco tradotto istantaneamente in russo e quella in polacco, mi mancava la messa tutta in russo. La piccola comunità cattolica presente a Chişinău a quanto pare è di nazionalità molto variegata. Senza saperlo, era proprio la messa più solenne della giornata, la domenica delle palme, con tanto di vescovo e la chiesa piena di gente.


Tornando, si passa per il mercato, cioè per quella via con tutte le donne-gospodina col foulard in testa che vendono i loro prodotti per strada. Mi lascio tentare da un delizioso formaggio che mi offre una signora. Arrivata a casa scopro il forno nuovo, rosso fiammante, ma le sorprese che mi attendono sono anche di più: è ricomparsa la luce dell’ingresso e soprattutto l’interruttore del bagno! Non dovrò più ingaggiare lotte quotidiane per ottenere un po’ di luce quando mi lavo.

Focaccia al formaggio versione moldava

Giusto il tempo per mangiare e si deve uscire perché siamo nel bel mezzo della campagna di pasqua. Si tratta di una raccolta alimentare per gli anziani.. “colectam produsie alimentari pentru batrani singuratici. Daca vreti, acolo este o box unde poteti pune acesti alimenti” ecco qua la prima poesia moldava che ho imparato a memoria, scherza Anna. La ripeto miliardi di volte a tutti i poveracci che mi capitano a tiro. È la prima volta in tutta la Moldova che si fa il banco alimentare. È un anno di prova, ma direi che sta andando bene.



Per la serata è previsto il festival di cinema italiano con film del calibro di “Notte prima degli esami oggi”. Ad alzare il livello culturale della serata ci pensa Simon: in Belgio oltre all’italiano ha studiato il babilonese e ci spiega che nel triangolo fonetico delle vocali l’impronunciabile suono â del moldavo sta proprio al centro: Moldova caput mundi. Tra una placinta e una compot la mia bocca si conforma ai suoni moldavi e chissà mai che un giorno riuscirò a parlare senza sputare l’anima ogni volta.

Il week-end prima c’è stato il festival di film francofoni: tutta la Moldova si è data appuntamento al cinema Gaudeamus, noi pure ci siamo dati appuntamento lì davanti coi volontari di Chişinău. Ci accomodiamo per terra e seguiamo il film in francese con tanto di Massimo Ranieri che canta Que reste-t-il? dando un occhio ai sottotitoli in rumeno: c’è la speranza che tutto ciò oltre ad aumentare la gran confusione linguistica che ho in testa, aiuti a migliorare la lingua: sperem! (milanese e rumeno sembrano coincidere a volte). I film sono carini, si decide di tornare.
La gente ride per battute che in realtà battute non sono e la cosa sorprendente è che non ridono semplicemente ma si sganasciano proprio dalle risate: non mi era mai capitato che un intero cinema strapieno di gente morisse dal ridere all’unisono, oltretutto magari in momenti tragici in cui però c’è una velatissima allusione sessuale: Vasile Ernu in Nato in URSS racconta un po’ della censura bigotta del tempo sovietico e della reazione che ne è venuta, però bisogna anche dire che non tutti i moldavi ridevano a crepapelle.

Il 24 marzo* è un mese esatto di Moldova. Si va a vedere il film Les hommes et les dieux; so di cosa parla e mi aspetto che mi aiuti finalmente a fare un po’ di ordine sul senso del mio essere qui. Racconta la storia vera di sette monaci francesi che hanno voluto vivere insieme al popolo algerino, vivendo come loro, con loro, leggendo i loro testi sacri e non abbandonandoli nel tempo della prova e della paura.
Restare, semplicemente “esserci” è la loro missione; in certi casi eccezionali il semplice rimanere implica il rischio di morire, ma l’abbé Christian lo ricorda a un altro monaco intimorito: “La tua vita è già donata”. E mi ricordo di un altro francese, Claudel, che nell’Annonce faite à Marie (il 25 marzo è il giorno in cui si festeggia il sì di Maria che ha aperto il mondo a Dio che si fa in tutto e per tutto come noi, condividendo la nostra vita) scrive: "A che vale la vita se non per essere donata?"
Mia mamma mi scrive per mail la risposta del filosofo Fernando Savater alla domanda: Come può un individuo fare qualcosa di rilevante per gli altri? Savater risponde: Il modo migliore è fare qualcosa "insieme" agli altri, perchè è così che si può cambiare davvero.

* sì lo so che è successo un mese fa, ma non c’è mai tempo per scrivere quindi sono sempre in ritardo nel “diario di bordo”

martedì 24 aprile 2012


Mucca da guardia...


            Niente tavolette, direttamente alla fonte!

venerdì 20 aprile 2012

On the road (Moldovan version)

Una settimana di vacanze pasquali ti permette di scoprire un po' di più il paese in cui vivi, di farti venire a trovare dalla tua ragazza, di affittare una macchina e armati di cartina seguire le rotte turistiche di un paese che di turistico non ha proprio nulla.
La macchina ti permette di seguire strade poco percorse dal mezzo di trasporto principe del paese, il microbus. Queste strade, spesso sterrate (se va bene) e di solito con asfalto disintegrato (gioia dei pneumatici), portano di solito a villaggi sperduti ma altre volte ad alcuni monasteri che sono veri gioielli. Intanto, per essere banale, direi che la parte più bella è stata il viaggio, immersi nella primavera moldava che ancora fa fatica a sbocciare ma che al tempo stesso ti regala scorci stupendi.

Per spiegare il resto vi lascio alle foto che non rendono completamente ma possono dare un'idea di quel che abbiamo visto...

Orhei Vechi
Orhei Vechi






Curchi






Curchi




Saharna
Saharna

Frumoasa
Frumoasa






Monache improvvisate a Raciula


Hirbovat


Hirbovat


Hirjauca
Prete e suora a Hrjauca

lunedì 16 aprile 2012

Una settimana intera

Sono arrivata. E’ difficile stabilire esattamente quando. Una vita fa, forse.
Il venerdì io e Magda ci guardiamo con aria perplessa. E’ di nuovo venerdì? Sembra di sì.
Cosa sarà mai successo in una semplice settimana di Marzo, in un posto così sperduto da essere il centro del mondo?

E’ un lunedì quando mi scopro inginocchiata e ricoperta dai rami di palma che Tchomba -il momento prima encadreur kindulese, quello dopo Tarzan- ha appena spezzato; sto cercando la sua penna smarrita in mezzo alla foresta, mentre un metro più in là si sfoggiano l’abilità infantile del taglio con il machete e la brillante emulazione di Magdusha. E’ lunedì quando per trovare rifugio da un temporale ci ritroviamo in una chiesa capanna con una mano al petto e intoniamo con ‘estrema convinzione’ l’inno di Mameli circondate da un pubblico di bambini in visibilio. E’ sempre un lunedì quando scopriamo una pianta che ci spara semi addosso come dei proiettili-la forza della natura kindulese, con la sua pacifica aggressività.

Di martedì incontriamo Mbweta e Barthelex, ed è come se ci conoscessero da sempre; entriamo nelle dimore di un commerciante di capre (alloggio anche dell’amico topo) e della più anziana donna congolese mai vista sinora a Kindu- ben cinquantatre anni di attività, dieci figli e la voglia di mettersi ancora in gioco. Non mangia pollo. Qui è un lusso. A proposito di polli, sempre di martedì scopriamo che l’équipe con cui lavoriamo è convinta che in Italia ne mangiamo due, di polli, al giorno ogni giorno. Martedì nasce anche la prima ChiaraMagda.


Il mercoledì andiamo lontano. Attraversiamo la foresta. E poi la savana. E poi ancora la foresta. Impariamo lo swahili, e scopriamo che tunapenda sana kizalikio. Siamo in moto. Grande stagno. Scendiamo. Attraversiamo le acque. Siamo nuovamente in moto. Ci fermiamo a mangiare en cours de route. E davanti a noi c’è un albero crollato che sembra la più sublime opera d’arte. Problemi alla prima, alla seconda, alla terza, alla quarta moto. Ci fermiamo. Quattro volte. Più o meno in mezzo alla savana. Ridiamo troppo. Siamo in moto. Strada interrotta da una parata militare. Ci fermiamo. Spettacolo senza pari. Vediamo il generale Tango Four (non ero neanche sicura esistesse tanto era oramai una leggenda; se vuoi sapere a chi appartiene il mondo, a Kindu, la risposta è sempre generale Tango Four). E’ un uomo tanto ricco quanto piccolo. I militari marciano. Sembra fatichino a rimaner seri. Una parodia. Le donne osannano euforiche i loro mariti/eroi, intonano canti e li ‘accecano’ lanciando in faccia tonnellate di borotalco (segno di vittoria, ci dicono.) Simulano un combattimento. Sparano. La gente urla, si nasconde. Spaventata e divertita. Ricorda i tempi della guerra, ma va bene. Sono fieri di avere un tale esercito che li difenda in caso di attacco. Grazie alle protuberanze degli alberi delle foreste e ai fantastici fuoristrada dei militari belgi e delle autorità, la terra diventa la nostra seconda pelle. Non siamo più mzungu (europee/bianche). Evviva. Una doccia, il nero va via e torna l’appetito. Hanno trovato un sinje e lo si mangia assieme. Non è un singe (scimmia), ma un parente obeso del porcospino.

E’ giovedì quando ci vestiamo en pagne, lo stesso pagne che indossano tutte le donne invitate alla nostra festa. Non reggiamo il confronto. Sembriamo più pallide del solito. Ma l’euforia della cittadina per questo nostro travestimento è alle stelle. Incontriamo un gruppo di esaltati che teneva stretto un uomo. Una confusione assordante. Le donne cercano di fermarli. Chiediamo cosa stia succedendo. Un gruppo di uomini aveva bloccato un pazzo accusandolo di stregoneria e, urlando qualcosa a noi incomprensibile, lo trascinava a forza. I muratori ancora a lavoro mentre gli altri fanno festa, approfittano della musica imperversante e improvvisano balli tra le impalcature. Era giovedì quando i nostri bellissimi colleghi ci hanno chiesto se fossimo mai state sulla luna.

Lista di candidati per il servizio civile in Congo. Ci sono. Poi non ci sono più. No. Perché? Avevo preparato tutto, ci credevo davvero. Forte Agitazione. Mi sveglio. Era un sogno? Realizzo che ci sono già, a Kindu. Sono felice. Sono ancora le 3h30 am, ma i miei vicini sono svegli come sempre. Spaccano la legna e fischiettano la solita semplice melodia che mi tiene tanta compagnia prima di addormentarmi. E’ già venerdì. Siamo a colazione con il professorino universitario che alloggia qui in procura. Ci fa una vera e propria lezione di storia del Maniema. E’ fantastico ascoltarlo date la nostra smisurata curiosità e la carenza di documenti in merito. Mentre in moto io e Bandal parliamo di questioni di vitale importanza (hai mai tagliato i capelli dalla nascita? ecc.), siamo costretti a rallentare. C’è una processione interminabile di persone. Tanto brusio. Cosa è mai successo? Hanno ucciso un uomo. Oh, no. Perché? Bandal ride. L’hanno sorpreso a rubare. Benissimo! Malissimo. I pareri in proposito sono troppo discordanti. Cerchiamo di spiegare il nostro punto di vista, ma sembra che su questo non si possa tanto discutere. Nel frattempo un insegnante di geografia dice ai suoi alunni che la capitale della Malesia è Singapore.

E’ sabato e ci troviamo in uno stanzino buio, pieno zeppo di gente. C’è un odore fortissimo. Risultato di troppi odori forti. Ci sono bambini sdraiati qui e là su tappeti di paglia. Lo chiamano hopital, ma in realtà di ospedale ha solo il nome e le due siringhe poggiate su una sporgenza tra il muro e la porta. Siamo qui per Tchombino (così da noi ribattezzato), il figlio del nostro caro amico. Sembra che le siringhe siano state utilizzate per fare una trasfusione. Pensiamo inizialmente sia un problema linguistico e che non abbiamo capito; e invece no. Hanno preso il sangue dal braccio del padre e lo hanno trasferito nella testa del bambino. Ci preoccupiamo, facciamo domande, ma il gruppo sanguigno, ma l’igiene, ma [..]. Questo è un paese in cui a volte le domande sono inutili; i forti e i fortunati ce la fanno. E Tchombino è fortissimo, come il suo papà.

La settimana volge al termine, è il giorno del riposo, è domenica. E ci aspettiamo sempre una nuova meraviglia. Siamo appiccicate ad una trentina di persone in piroga, tra i richiami sbraitanti degli altri piroghieri. Sguazziamo a piedi scalzi nel fango per chilometri, ci laviamo nel fiume per poi sprofondare di nuovo nel fango. Siamo con il naso all’insù sul retro di un pick-up sotto il cielo più bello che mai di Kindu, mentre masse di bimbi sbucano da ogni angolo della strada intonando un arrivederci che suona come un dolcissimo urlo da stadio (ohohoh!). Siamo lungo il meraviglioso fiume Congo ad una cena che sembra un summit internazionale mentre osserviamo piroghe stracariche di ogni che, tornare da infiniti giorni di viaggio dalle ‘vicine’ città. Sono a CASA sdraiata sul prato, Magdusha alla mia destra, Enrico alla mia sinistra. Il nostro maestoso e rassicurante albero di mango, alle nostre spalle, ci fa da guardia, come sempre. Siamo letteralmente circondati da stelle. E’ una notte magica a Kindu.
E se il lunedì mattina successivo comincia con il nostro Babbo Natale belga che ci porta in dono papaie e biscotti, un’altra settimana si prospetta sucrée e breve, quasi infinita :)

Chiara

La triste storia del sacchettino di tacos [ + inedita colonna sonora!]


Cosa vi immaginate dalla Jornada de la Limpieza?!?
...
...


Ma passiamo ad un'altra storia.

Agua, Aguaa! Churros! Melcochas, Melcochas, Melcochaasss!!! Gaseosa! Frescoo! Cosas de Horno!!
E così scintillanti lattine, invitanti pacchettini, immacolati sacchettini di plastica, bottiglie, fazzolettini, foglie di banano iniziano a passare di mano in mano ai passeggeri fino ai più impenetrabili angoli del bus... e poi?









Passiamo ad un'altra storia.
Costa Caribe, Awas.
In questo minuscolo villaggetto di pescatori miskito contemplo il paesaggio rapita dalla bellezza di un angolo di mondo ancora inviolato e sconosciuto al turismo di massa. Seduta ai bordi della laguna, sotto una palma da cocco dal fusto fiero e slanciato, da una baracca vedo uscire una piccola bimba che viene verso di me... che carina, guarda l'essere umano nella sua semplicità e naturalezza!
Ma in un battibaleno splash!!! e i miei fini pensieri eco-antropo-filosofici si dissolvono e si allontanano come quella lattina, appena gettata in acqua dalla mani della bimba. E io, come un bimbo, non riesco a trattenere una lacrima.



Sempre Costa Caribe. Laguna da Perlas.
Nel lungo viaggio di ritorno in bus verso la civiltà, attraversiamo, su una strada sterrata e polverosa, un'immensa foresta tropicale, con centinaia di specie arboree differenti che si perdono alla vista e portentosi giganti verdi stile Avatar... uno dei polmoni verdi del Nicaragua e di tutta l'America Centrale.
Ma lo volete sapere come sta il nostro polmone verde? Davvero siete così curiosi?!?
E allora... preparatevi a passeggeri che senza il ben che minimo pensiero gettano i rifiuti fuori dal finestrino (ecco dove finiscono le scintillanti lattine, gli invitanti pacchettini, gli immacolati sacchettini di plastica, le bottiglie, i fazzolettini, le foglie di banano!), a immense monoculture di banani, palme da cocco e da olio e ai giganti verdi che, per quanto portentosi, non stanno certo opponendo resistenza al nostro rapido passaggio con seghe e macheti alla mano.
Qualche saggia persona (giusto per ricollegarmi al mio ultimo post!), probabilmente a qualche altra latitudine – ma che importa, tutto il mondo è paese! - di fronte ad uno spettacolo de genere, si chiese: « come si fa a stroncare in così poco tempo la vita di un essere che ha impiegato così tanti secoli a crescere, resistendo a uragani, tempeste e a tutte le forze della natura?».
Beh, se proprio lo volete sapere, venite qui a vedere che ne rimane dei nostri giganti.




Ma passiamo pure ad un'altra storia.
Elena, Emilia, Beatrice, Cristina, col loro spiccato senso civico e le buoni abitudini di educate e coscienziose cittadine italiane, all'interno della loro Nicasina sono alle prese col problema spazzatura... o pattume... o munnezza... o basura... o come lo volete chiamare.
Già la prima settimana la sconvolgente scoperta: « Qui non si fa la raccolta diferenziata! Ci pensano poi nella chureca a riciclare tutto!»
«Ma come? E noi che eravamo così bene abituate a tutti i nostri ordinati cestini colorati, ora che facciamo??» Per alleviare la frustrazione e il senso di colpa, trovano un'idea geniale: « noi comunque continuiamo a differenziare la spazzatura, in modo che i poveretti che ci metteranno le mani almeno si trovino il lavoro un po' facilitato!».
Idea geniale, sì. Quando passa il camion della basura loro consegnano agli addetti i loro ordinati sacchettini... per poi però leggere sulla Prensa di qualche giorno dopo che i lavoratori - nonchè abitanti – della chureca di Managua stavano scioperando perchè gli uomini del camion – gli operatori ufficiali diciamo, a cui le nostre ecopaladine avevano consegnato gli ordinati sacchettini – si stavano appropriando indebitamente della spazzatura, unica fonte di reddito degli altri!
Che è successo??
Collaborazione a delinquere! In pratica le nostre Nica hanno facilitato, senza saperlo, un giro d'affari illecito di spazzatura! Con la coda tra le gambe, cercano di guardare il problema da un altro punto di vista, e credono, per un attimo, di aver trovato la soluzione, soluzione per altro sostenuta da diverse voci ecologiste: «se non è possibile ricliclare, proviamo a produrre meno rifiuti possibile». Così, munite di buona volontà, si recano al supermercato... peccato che produrre imballaggi/rifiuti appaia subito come lo sport nazionale! E parte la sfida (impossibile!) a trovare un pacco di biscotti non suddiviso in almeno 6 monoporzioni tutte rigorosamente impacchettate, o a comprare un pacco di pasta più grande di 200 gr, o a convincere il cassiere che possiamo fare a meno di tutti quei sacchettini (per una intera spesa ce ne vorrebbero almeno 10!) perchè ci siamo portati lo zaino da casa!



Di storie, aneddoti e punti di vista ce ne sarebbero tanti altri e sicuramente il mio è molto diverso da quello degli abitanti/lavoratori delle chureca di Managua, o da quello di Roberto un alunno del Guis, che nella chureca di Nueva Vita ci passa i pomeriggi, o da quello dei campesinos della Costa Caribe, che evidentemente per qualche motivo hanno deciso (o gli hanno fatti decidere, chissà) che quelle foreste vergini e quei giganti centenari non erano poi così importanti...



Sò solo che oggi al Guis c'è stata la Jornada de la Limpieza, io sono andata, ho ripulito il mio bel tetto da rami e foglie, abbiamo tirato a lucido giardino, orto e marciapiede... ma, invece del profumo di pino silvestre che ben si addice – secondo i miei standard occidentali, ovviamente!– alle pulizie di Pasqua (di questo si trattava insomma) ho creduto per un attimo di essere arrivata proprio sulla bocca dell'Inferno! Cioè, qui la gente è abituata a bruciare immondizia in ogni angolo della strada, io invece non ancora, e mi sono trovata a saltare da una parte all'altra del cortile in cerca di uno spazio d'aria minimamente respirabile... mission impossible, naturalmente!
E così, rassegnata, ho terminato la mia Giornata  della Limpieza alimentando il puzzolente falò col sacchettino di plastica dei gustosi tacos di Doña Chilito.

domenica 8 aprile 2012

... Al posto della libertà ...


E volto le spalle... lasciandomi alle spalle una desolazione incrociata solo superficialmente, forse più con l'animo che con gli occhi. Il mio sguardo non si è soffermato sui volti talora stanchi talora spaesati delle persone che mi circondavano, una sensazione strana me lo impediva, come una percezione di estraneità.
Alzare lo sguardo era come voler sfidare quei volti segnati da dolori e fatiche e ciò mi metteva a disagio.
Sono entrata a testa bassa, incerta del significato della mia presenza là tra loro e a testa bassa sono uscita dopo aver parlato con il capo della polizia che ovviamente esigeva un'autorizzazione per farci entrare nel campo profughi, che poi così non dovrebbe neanche essere chiamato anche se di questo concretamente si tratta. Mi dirigo verso l'uscita fissando la terra polverosa, il capo chino, non perchè io sia delusa ma perchè non ho ancora trovato il coraggio di sostenere gli sguardi interrogativi, quasi diffidenti, che si posano su di noi. Sono sollevata: per oggi non dovrò entrare nell'inferno. Le anime sventurate che lo popolano sono Siriani, gente semplice, contadini, donne e bambini, l'età media nel campo oscilla tra i 19 e i 29 anni.
“Ragazzi come noi”
Questo ho pensato quando la dirigente dell'associazione di assistenza medica affiliata all'UNHCR ha risposto alle nostre domande.
“Quanti sono?”
“Tanti, ogni giorno sempre più. Dal 29 marzo il numero sale esponenzialmente.”
Azzarda una stima “ Si contano circa 15.000 displaced people qui in Giordania” . 
Difficile trovare due fonti che concordino sul numero esatto, quello che è certo è che sono molti.
… ragazzi e ragazze...  
Persone che hanno subito violenze e torture e sono state costrette a fuggire, ad allontanarsi dalla casa e dalla famiglia, a lasciarsi tutta una vita  alle spalle, esistenze sradicate e trapiantate in un' altra realtà, umanità ferita, raccolta in un luogo che non è tale, in un campo che è un non luogo, dove la vita si ferma, arresta il suo naturale corso come sospesa. Molti, tutti vogliono tornare in Siria, non accettano questa forzata e tragica parentesi nella loro vita, questa fuga imprevista che ha drasticamente interrotto le loro vite costringendoli a fuggire. Dietro a tutta questa violenza, perché quando si costringono migliaia di persone ad interrompere drasticamente le loro vite di questo si tratta, solo dati incerti, percentuali e stime numeriche che mostrano realtà completamente diverse.

E dall’occidente giungono voci contrastanti: mentre i mass media raccontano di un governo che per mezzo dell’esercito attacca la sua stessa popolazione vi sono molti giornalisti che scrivono di una realtà molto diversa e parlano di una rivolta strumentalizzata e fomentata dall’occidente[1].
“You’ll get the shari’ah and we’ll get the oil”, questo è lo slogan che secondo molti si nasconde dietro l’ennesimo tentativo di esportare la democrazia. Non è forse ora di chiedersi per quanto questa scusa, ormai trita e consunta, ci ingannerà ancora?
Intanto ad Amman si contano a decine i mercenari inviati dai paesi del Golfo, dalla Libia, tra loro anche qualche pashtun afghano[2]. L’Arabia Saudita proclama che sono stati inviati per sostenere i ribelli, per combattere contro il regime oppressore di Assad; non è forse legittimo chiedersi da che parte stiano allora questi ribelli? Siamo sicuri che dei mercenari talebani possano combattere per la democrazia? Il regime è sicuramente corrotto, ma i giochi di potere sono molto più complessi di quello che in realtà sembrano e questa rivolta non è solo una sollevazione popolare, sotto ci sono interessi ed equilibri molto più complessi di quello che le fonti ufficiali di informazioni lascino trapelare[3].

I pensieri si affollano confusi, più si va a fondo della questione meno la si comprende. L’unica cosa certa è che questa calcolata disinformazione fa parte del gioco e a testimoniarlo basti citare la dimissione di 5 giornalisti corrispondenti di Al Jazeera a causa delle menzogne diffuse dalla nota emittente[4].

Ma questa volta è diverso, le vittime della tragedia non sono fantasmi lontani rievocati da numeri e cifre distrattamente letti nei giornali, questa volta sono esistenze che ho sfiorato, vite incrociate quasi per caso, incontri mancati che continuano ad essere avvolti in una coltre di silenzio spessa tanto quanto la mia incapacità di ridare loro quella dignità di persone perduta e cancellata dal campo, dalle definizioni ufficiali, dai numeri e dalle percentuali. Abbassando lo sguardo non faccio altro che sancire la loro condanna.

Il mio sguardo si posa nuovamente sulla terra polverosa, terra giordana, terra di una nazione creata dal nulla e dal deserto, popolata di rifugiati e che continua a prestare fede alla sua vocazione rinnovando di giorno in giorno il suo ruolo di mediatrice tra occidente e medio oriente grazie all’abile equilibrismo dei suoi sovrani. Terra che per l’ennesima volta si riconferma un’isola di relativa quiete circondata da un mare in tempesta.

Alzo gli occhi al cielo: uno stormo di uccelli in volo cattura il mio sguardo.
Provengono da nord, hanno appena sorvolato il confine eppure per loro non c’è un campo ad attenderli, loro sono liberi di volare ovunque, senza barriere, senza status ufficiali, nessuno li additerà come “displaced”.
E forse un po’ ingenuamente penso alla libertà così come è intesa dagli uomini, a quest’ideale astratto che diviene spesso gabbia e prigione.
Dove abbiamo sbagliato? Cosa ci sfugge?

giovedì 5 aprile 2012

Uno o due?

Uno o due? Unirea sau nu? Questa è una domanda che mi faccio da quando sono qui, ha senso l'unificazione tra Moldova e Romania? E soprattutto è possibile? 


Le opinioni sono decisamente contrastanti, in un paese come questo così diviso tra filoromeni e filorussi direi che è normale. Però anche tra chi più guarda alla “sorella maggiore” Romania le idee sull'argomento sono molto diverse. Aggiungiamo poi il fatto che in Moldova esistono due regioni (Transnistria e Gagauzia) che sarebbero pronte alla secessione o addirittura alla rivolta se la Moldova venisse inglobata nella “Romania Mare” (in realtà la Transnistria ha già fatto entrambe).


Parlando con molte persone le idee sull'argomento sono tante, alcuni credono fortemente nella riunificazione e nella sua attuazione a breve (tanto da organizzare ogni anno una manifestazione). Molte persone la vorrebbero ma non credono sia realizzabile, almeno non a breve, quindi per adesso aspirano ad entrare nell'UE per potersi almeno avvicinare all'obiettivo. Molti altri (soprattutto i più giovani) più che alla Romania in sé agognano alla libertà di muoversi e quindi all'UE che per questo sarebbe una perfetta soluzione. Non manca poi chi i romeni proprio non li può vedere (cit. “Sono tutti zingari”), ma purtroppo dal “fronte pro-russo” posso portare poche informazioni vista la barriera linguistica.




Quello che credo io è che in questo momento le condizioni per una riunificazione non ci siano, entrambi i paesi non sono pronti a questo e soprattutto la Moldova deve risolvere prima alcuni conflitti interni (sempre Transnistria e Gagauzia). Intanto per la Moldova potrebbe essere una grande spinta entrare nell'Unione Europea, anche se io non ho ancora capito bene quali siano le loro idee per quando sarebbero stato membro, perché come possiamo vedere chiaramente essere nell'UE non significa che tutti i problemi si risolvono automaticamente, anzi...In ogni caso una maggiore apertura certamente gioverebbe per molti aspetti a questo paese così tanto chiuso (cit. “Quando siamo stati liberi eravamo in un carcere”), in più sarebbe un ulteriore avvicinamento alla Romania e da questo potrebbe iniziare un processo di riunificazione, che non sia basato solo sull'entrata nell'UE ma su basi più fondate. Il vero treno per la riunificazione è stato perso con la caduta dell'URSS, a quel tempo ripristinare i confini prima del patto Molotov- Ribbentrop aveva certamente senso, adesso il processo è certamente lungo e complicato e non so che frutti possa portare. Questa foto direi che può essere esplicativa della situazione:




Moldova e Romania nascono dalla stessa terra ma sono cresciute separate per molto tempo separate, sebbene da uno spazio molto piccolo. Io sinceramente non saprei come unire i due palazzi, e soprattutto non saprei dire come verrebbe la ristrutturazione... 

E voi che ne pensate?

KACCA


Nel mio lessico familiare la parola “cacca” ha un grosso peso: avendo in casa una nonna-bambina (che ha compiuto da poco novant’anni e a cui dedico questo post :) ci si chiede spesso: l’ha fatta? Non l’ha fatta? Sì l’ha fatta, yeah!
Una delle prime cose che mi ha colpito qui a Chişinău è stata la grande diffusione dell’alfabeto cirillico.

La C si legge S


Dal 1924 fino al 31 agosto 1989 (data importante dedicata alla lingua) in Moldova l’URSS aveva imposto l’uso del cirillico anche per scrivere in rumeno (il cosidetto “moldavo” che in realtà non si discostava dal rumeno ma voleva giustificare la divisione tra Moldova e Romania), oltre a un processo di russificazione simile per certi versi al processo di italianizzazione forzata da parte di Mussolini dell’Alto Adige- o meglio Südtirol (l’ho detto che questo post è in omaggio alla mia nonna che è un’autentica tirolese nata nella “mia bella Innsbruck”, quindi mi si perdoni la faziosità). 



Ritornando all’argomento principe del post, la KACCA, un’altra delle primissime cose che non può non colpire in una tipica casa moldava, qual è anche la nostra, è proprio il bagno. Il water è in uno stanzino minuscolo separato e senza finestre (per questo bene in vista c’è lo spray antiodore!). In alcune case l’onnipresente moquette ricopre persino il bagno ed è per questo motivo – oltre al fango che la fa da padrone in certe giornate – che in casa si sta solo con le calze, anche con gli ospiti più o meno importanti. E questo è l’ingressino di casa nostra, in condivisione con il vicino, dove si lasciano le scarpe. Vi lascio immaginare il buon “odore di casa” quando si entra!