Eccoci, un’altra mattina alla
stazione degli autobus, fermi sotto un sole già rovente. Quanto aspetteremo
oggi? Difficile fare previsioni … A volte bisogna lottare per accaparrarsi un
posto, altre volte bisogna aspettare un tempo interminabile prima che il mezzo
sia al completo di passeggeri e quindi pronto a partire. Non sappiamo mai a che
ora saremo sul posto di lavoro: a volte arriviamo in anticipo, quasi mai in orario,
spesso e volentieri in ritardo. Ma alla fine qua a nessuno sembra importare, la
filosofia di vita è molto diversa dalla nostra, qui inshallah (se Dio vuole) non è un’espressione, è uno stile di vita. Ci
lasciamo alle spalle Amman,
attraversiamo Zarqa e presto il bus comincia a sfrecciare nel deserto. Un deserto
di colline sassose e pietraie, un deserto che è solo un illusione, un
intervallo di natura immota e potente che incontriamo quasi per sbaglio e
presto abbandoniamo. Eccoci di nuovo in periferia. Il vecchino seduto dietro di me mi tocca col bastone, proprio come quando ci si vuole accertare che qualcuno sia ancora vivo, e io, che come al solito mi sono addormentata negli ultimi cinque minuti di viaggio, apro gli occhi:
È ora di scendere.
Mi guardo intorno, respiro: aria
secca, polverosa e calda. Sono arrivata a Mafraq.
Da sempre città di confine, città
nel deserto, da qualche mese città di
rifugiati, di povertà, di dignitosa e composta disperazione.
Eppure in apparenza tutto è così normale. I mendicanti ai lati delle strade sono di più, molti di più, sono donne anziane, bambini, anche uomini di tanto in tanto, parlano con un accento diverso, ma la gente non pare scomporsi; tutto pare abituale, scontato, ordinario. È strano trovarsi sul teatro di una tragedia e vedere come la vita continui a scorrere impassibile, imperturbabile. Con ordine la società civile giordana si è apprestata a soccorrere gli sventurati vicini, come se fosse la cosa più normale del mondo, come se fosse scontato che dopo ai Palestinesi e agli Iracheni in qualche modo anche ai Siriani toccasse il proprio turno. I mass media non gridano all’invasione come fa la stampa nazionale nostrana ad ogni singolo sbarco di immigrati, sono al contrario solidali, parlano di aiuti e di progetti di accoglienza, di ospedali da campo, di realtà locali impegnate nell’emergenza e delle ONG straniere che le supportano. C’è preoccupazione e c’è tensione, è normale, la Giordania non è un paese ricco e ha già seri problematiche sociali con cui deve fare i conti, ma le persone accolgono prontamente, senza sospetti e con generosità.
È vero, Il governo non ha una posizione chiara e cerca di non
sbilanciarsi e questo, sicuramente, va in parte a discapito delle condizioni di
vita dei Siriani in suolo Giordano, ma la popolazione civile, anche se stanca e
preoccupata, accoglie e aiuta. I movimenti informali nati dal basso, dalla
gente comune, sono molti: ci sono iniziative culturali, spettacoli di vario
tipo, concerti di gruppi ska e rock, una rarità nel panorama musicale
mediorientale, il tutto per raccogliere
fondi per chi è scappato, per tutti coloro, e sono tanti, che ogni giorno
varcano la frontiera. È vero, tante persone vivono “l’emergenza” come una
realtà distante e lontana, la stragrande maggioranza della popolazione infatti vive
alla giornata arrabattandosi e ingegnandosi in mille modi per arrivare a sera, ma, nonostante ciò, il tessuto sociale
Giordano è vivo, si attiva, risponde e crea reti di solidarietà accantonando la
stanchezza e l’amarezza che contraddistinguono quest’ennesima tragedia
mediorientale.
Al contrario di ciò che avviene
in Italia, qui i mass media non utilizzano meschini sotterfugi linguistici per
diffondere incertezze e paure, per creare sindromi da Cassandra alimentando quella
che è stata più volte magistralmente definita una “tautologia della paura”. Da noi
gli immigrati sono clandestini, irregolari, delinquenti, invasori, sono
portatori di una cultura troppo diversa e quindi pericolosa, sono quelli che ci
rubano il lavoro e che creano insicurezza sociale, sono chiusi, arretrati, sono
individui pericolosi per la società, sono, in sostanza, capri espiatori che
portano lo stigma di colpe non loro.
Qui i Siriani sono “ fratelli per
cui si deve pregare” , forse sono visti come vittime ma questo punto di vista
non è accompagnato dal paternalismo che invece è proprio dei discorsi pubblici
italiani e, più in genere, europei. Quello che ho notato qui in Giordania è che
quando si parla di Siriani si parla di PERSONE, uomini, donne, bambini che
continuano a possedere una loro dignità.
E dal cuore del mondo musulmano,
quel mondo che tanto spaventa noi occidentali poiché spesso considerato arretrato
e violento, giunge una lezione di dignità, umanità e fratellanza: sulle coste
italiane sbarcano clandestini, qui si accolgono persone.
Distribuzione di beni di prima necessità a Zarqa |
Il tassista che mi riaccompagna a
casa accende la radio, ascolta le notizie poi alza le spalle e dice: “ altre bombe,
hai sentito? Prega, prega anche tu. Allah deve aiutare i nostri fratelli
Siriani”.
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