Roberto Fallini, 15 Marzo 2012.
Beirut, Libano.
Periferia sud di Beirut, Libano. Domenica pomeriggio. L’inverno sembra
aver dimenticato di lasciar posto alla primavera. Il cielo è terso, la
temperatura bassa ed un timido sole tenta di spezzare una settimana di pioggia
ininterrotta.
Con un gruppo di amici percorro la strada che da Tayoune Square
conduce nei quartieri sud della città, l’area conosciuta comunemente come Dahieh
(sobborgo in arabo), zona sciita, duramente colpita durante il
terrificante attacco israeliano dell’estate 2006. Nuovi palazzi ricostruiti
negli ultimi anni ovunque cozzano con edifici in stato d’abbandono,
semi-distrutti, crollati durante i bombardamenti. Il quartiere più importante
della zona è decisamente Haret Hreik, roccaforte di Hezbollah, interamente
ricostruito dall’organizzazione Jihad al-bina’ (Sforzo per la
ricostruzione), che fa capo proprio al movimento di Hassan Nasrallah.
Non lontano da questa zona ci appare un assembramento di costruzioni,
fatiscenti, schiacciate l’una sull’altra. Una mano invisibile sembra aver
disegnato un perimetro, visibile persino agli occhi di un distratto visitatore,
che marca territorialmente aree ben distinte. Al suo interno, si estende per un
chilometro quadrato il campo profughi palestinese di Burj el-Brajne.
Giunti nel 1948, momento della creazione dello Stato d’Israele e
inizio della diaspora palestinese, i rifugiati palestinesi in Libano vivono
tuttora in condizioni d’indigenza e precarietà. Secondo le statistiche di Human
Right Watch, sono ad oggi circa 300,000 e la maggior parte vive ancora nei
campi profughi costruiti nel 1949, sopravvissuti alla guerra civile e
caoticamente ampliati per far fronte all’aumento di popolazione. Privi della
cittadinanza libanese, del diritto di proprietà privata e della possibilità di
esercitare circa 25 fra le professioni più desiderabili, i palestinesi soffrono
di gravi problemi economici ed di inclusione nella società libanese.
I bambini si rincorrono nei vicoli, alcuni sono attratti dalla
presenza di stranieri e si battono per entrare negli obiettivi della Canon di
uno dei miei compagni. I sorrisi e la spensieratezza contrastano con quanto li
circonda. “Anch’io ho una bambina -rivela Ahmad- si chiama Leyla”. Una foto
compare sullo schermo del suo cellulare, ritraendo un sorriso senza denti
tipico dei bambini di quell’età. “Ha quattro anni e soffre di bronchite
cronica. Questi vicoli non le permettono di respirare bene”.
Il sole non c’è più e l’oscurità aumenta, dando l’impressione che Burj
el-Brajne sia davvero una prigione. I vicoli sono molto stretti, e spesso, nel
cuore del campo, permettono solo di camminare in fila indiana. Le case si
schiacciano le une sulle altre, lo spazio diventa un concetto astratto. “Chiedi
a chiunque qui dentro (il campo ndr), riguardo alle proprie aspirazioni. Tutti
ti diranno che vogliono andare via, non si può vivere così”, mi confida Ahmad,
mentre si accende una sigaretta.
I poster di Yasser Arafat e le bandiere palestinesi colorano i muri
grigi. Avvistiamo l’uscita del campo e ci congediamo da Ahmad. “Ma’ salama
(andate in pace) -risponde lui -è stato un piacere. Ah, non scattate fotografie
all’uscita, non è sicuro”. È buio ormai. Silenziosi, proseguiamo
la passeggiata nella Dahlieh.
(1)Ai personaggi che compaiono nel racconto sono stati assegnati nomi
di fantasia.
(2) La prima foto ritrae uno dei vicoli più larghi del campo.
Fonte:http://lebanonworkinprogress.wordpress.com/dai-testimoni-ricostruzione-storico-politica
Fonte seconda foto: http://mondoweiss.net/2012/02/the-palestinian-refugees-of-lebanon.html
Complimenti per il reportage all'interno del campo. Il pensiero che mi viene in mente è come siano nascosti agli occhi della gente questi insediamenti, se passi distratto nelle vie adiacenti non ti accorgi che la dietro un pò nell'ombra c'è un mondo. Tutti a Beirut sanno cosa sono questi campi e dove sono, semplicemente per la maggior parte dell'opinione pubblica è come se non esistessero!
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