mercoledì 5 settembre 2012

S.c.a.m.b.i.o.

Si

Comincia 
Anche 
Mettendo 
Bandiere 
In 
Ombra

Ah, questi acrostici! Pena e onere di nove cantieristi moldavacci!


Ciononostante, siccome siamo i migliori, dalla parola SCAMBIO sono uscite perle non indifferenti (vero, Angela?!). Voglio ora passarvi il mio contributo, e vedrete che vi parlerò non tanto delle persone che a Manta e Razalai abbiamo incontrato, fosse per giocare con loro o per aiutarli a tagliar legna o pulire casa, quanto delle persone che al nostro fianco hanno lavorato ogni giorno, per quattordici giorni, perché, a conti fatti, non è vero che i bambini e gli anziani moldavi sono più felici/più tristi/più psicologicamente problematici dei nostri. Non è vero che abbiamo imparato da loro perché sono – usando un termine semplicistico – più poveri di quanto possiamo esserlo a Milano, a Genova, a Lecce, e lo stesso sorridono. Abbiamo imparato da loro nel momento in cui abbiamo avuto realmente modo di portare alla pari il punto di scambio, di azzerare il preconcetto inevitabilmente insito nella nostra origine differente. E non esiste miglior inizio di quello che fa breccia nella quotidianità, nel guardare realmente le persone con cui mangi, dormi, lavi le mutande. 

Dunque perché le bandiere in ombra? Le bandiere rappresentano tutti i nostri arroccamenti, fisici, mentali, sociali, abitudinali; le bandiere dietro cui ci nascondiamo sono il muro che ci divide dall’altro da noi. Allora perché non metterle da parte, per un istante? Perché non provare a sollevare il sederino dagli allori e accettare che chi ha, appunto, diverse bandiere, può in effetti avere qualcosa che io non ho? 

E in effetti i ragazzi moldavi hanno qualcosa che io non ho. Hanno praticità, hanno manualità, hanno un’impostazione mentale votata alla precisione (e nella mia vita un po’ più di precisione certo non guasterebbe, anche se la loro a volte era… come dire? Esasperata!). 

In Moldova si parla rumeno, in prevalenza; non è quindi difficile comprendere come i primi giorni di cantiere siano stati costellati da diversi tipi di frustrazione comunicazionale: gesti, fraintendimenti, spizzichi di duemila altre lingue per avvicinarsi in qualche modo alla comprensione della persona che ti stava davanti… Il mio inglese a poco è servito! Poi, imparando tre parole al giorno, ecco lo scambio: finalmente capiamo reciprocamente almeno la metà di quello che dice l’altro (al punto che ridiamo delle battute ancora prima che arrivi la traduzione), riusciamo a raccontare un poco di noi stessi a qualcuno che volente o nolente possiede schemi mentali spesso opposti ai nostri; quello che pensa l’altro è davvero interessante, e davvero ci teniamo a scoprirlo. Con un po’ di fatica riusciamo anche a sospendere il giudizio quando vediamo le infinite diatribe sociali fra filo rumeni e filo russi riflettersi negli atteggiamenti di ragazzi di diciott’anni, quando percepiamo la difficoltà dei nostri coetanei a “smussare i propri angoli” nelle discussioni, e uscendo dalla quotidianità infine sospendiamo il giudizio quando incontriamo adulti e anziani abbandonati a se stessi, o bambini che sono costretti a crescere lontani dai propri genitori, dovendosi magari occupare di altri tre fratelli più piccoli. E davvero, solo allora, la nostra mente è aperta. 

Uno dei miei momenti preferiti in assoluto è stato certamente quello in cui Mihaela, volontaria moldava e gran bella voce, e io alla chitarra, abbiamo inventato di sana pianta, dal nulla, improvvisando una nuova canzone. Senza precedenti accordi. Lei cantava, io cercavo di seguirla al meglio con quattro note strimpellate. La comune lingua della musica ha reso il tutto inaspettatamente semplice. 

Siccome so che morite dalla curiosità, eccovi accontentati con il testo di questo capolavoro:

Ea fu
siccome Cesarina, or
non v’è più
illustre gallina.
Il suo canto
più non odo,
il cor affranto,
orba di tanto brodo.
Il piatto della festa
sacrificammo alla sua cresta,
l’artiglio rapace
al volontario italiano
poco piace,
in nostalgia del nostrano.
Riguardo la nostra demenza,
ai posteri l’ovvia sentenza.

Come? Vi sembra d’averla già sentita??? Ma nooooooooo! La genesi di questo testo è totalmente autentica! (E comunque Manzoni non può più rivolgersi alla SIAE…) 

Dovete sapere che la prima cena a Manta insieme ai ragazzi moldavi è stata a base di brodo, verdure e… gallina. Ecco, quando dico “gallina”, intendo TUTTA la gallina. Sì, esatto, anche la testa. Per l’intera durata del pasto ha troneggiato drammaticamente sul piatto accanto al mio la cap di quella che poi sarebbe rimasta, nella nostra addolorata memoria, la gallina Cesarina. Da lì i deliri pseudo letterari di un pomeriggio fra cantieristi. 

                                 

Ma le bandiere sono anche senso di appartenenza, sono cultura d’origine, sono radici, sono le esperienze che hanno definito il mio cammino e chi sono diventata. Quindi le metto solo in ombra, non le annullo completamente, perché SCAMBIO significa che io ricevo, ma che pure dò. E che cosa ho di più intimo (en thúmos = nell’anima) da scambiare con te di quello che mi definisce come persona? Dunque, se tu mi chiedi, io ti rispondo, ti racconto, e poi ti chiedo a mia volta. Le mie bandiere-muro sono in ombra, le mie bandiere-vita le tiro fuori ogni volta che posso e le metto a tua disposizione, cosicché tu possa imparare da me tanto quanto io imparo da te. 

Vorrei poter dire che siamo arrivati al massimo, che abbiamo sfruttato ogni occasione in questo senso, che abbiamo realizzato in toto questa teoria: non tutto è sempre facile, e di ostacoli ne abbiamo incontrati, spesso più caratteriali e relazionali che oggettivi e materiali. Tuttavia sono comunque persuasa che ciascuno di noi abbia fatto del suo meglio, si sia buttato nel gioco con tutto ciò che aveva. 

Di sicuro abbiamo portato via tanto da quella piccola terra, contemporaneamente antica e ingenua come chi la abita ora. E come in tanti laggiù ci hanno ripetuto, prendendo in prestito le parole di Josè Saramago che abbiamo trovato appese in casa di M&M&M (per i non SCE: Mariaclaudia, Mariarosa e Marco), “bisogna ritornare sui passi già dati, per ripeterli, e per tracciarvi a fianco nuovi cammini”. Quindi chissà… 

Nel frattempo, NOROC!

Ile

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